by Arianna Di Genova
A risvegliare echi latinoamericani nel cuore di Berlino, è stato nel 1964 il signor Heinz Rewald, emigrato in Colombia prima del rovinoso avvento di Hitler e poi rientrato nella sua città, quando le acque si erano calmate. Fu lui ad aprire il leggendario Hotel Bogotà al quarto e quinto piano di un edificio di Charlottesburg, in Schlüterstraße 45, che già aveva segnato la scena berlinese, con orrori politici e riprese culturali. Tre anni dopo, Rewald acquistò l’intero palazzo, accorpando i vari alberghi che lì risiedevano. Da allora, quel luogo si è trasformato in una fucina di incontri creativi, fino al 2013, quando crisi e rincaro degli affitti non hanno permesso al nuovo proprietario (che lo aveva rilevato fin dal 1976) di poter continuare sulla scia di una illustre storia. Tutto all’asta, arredi e pezzi d’arte collezionati nel tempo. A raccogliere il testimone di un’epoca (coniugandola agli stati d’animo del presente) ci ha pensato però la fotografa Karen Stuke con la sua serie Hotel Bogotà che, dopo la galleria Primopiano di Napoli, approda all’ottava edizione del festival di Castelnuovo di Porto (3-11 ottobre), con una mostra a cura di Antonio Maiorino Marrazzo.
Seguendo la serie sull’hotel Bogotà e le immagini dedicate a
Sebald per «Austerlitz» si evince la ricerca di una costellazione
stabile nella memoria…. È un confronto aperto con la Storia?
Oltre a ritenere la narrazione storica molto interessante, ho sempre
pensato che l’umanità dovrebbe imparare da quel che è accaduto, trarne
delle lezioni. Purtroppo, non succede spesso. L’umanità, infatti, non
subisce grandi mutamenti, è la tecnologia a operare dei veri
rivolgimenti. Le persone sembrano credere solo a quel che vedono e
agiscono di conseguenza. Credo che la conoscenza storica offra invece
una profondità riflessiva che poi si riverbera anche sulle nostre
azioni.
Crede che la fotografia conservi il suo valore documentario, pur se, a volte, sospesa tra realtà e finzione?
Anche se la fotografia può «mentire» – a causa della messa in scena, per
l’occhio soggettivo del fotografo, o addirittura con l’ausilio delle
manipolazioni delle nuove tecnologie – al suo fondo credo che mantenga
vivo un principio di verità. Naturalmente, dipende molto da ciò che il
fotografo vuole significare e se desidera rendere oggettivo il ritratto
di un particolare soggetto. Non sono una «documentarista», ma uso questo
mezzo per far affiorare determinati episodi o circostanze. Il modo in
cui utilizzo la fotografia è sempre in bilico fra finzione e realtà. I
luoghi sono realissimi, le storie invece tendono a evaporare. Per questo
motivo, da anni lavoro con una fotocamera stenopeica. L’esito sfocato
sottolinea i ricordi incerti e sbiaditi, la labilità del tempo.
Mi appassiona il fatto che nella vita non si possano vedere le cose in questo modo, che sia un artificio.
Da dove viene la scelta dell’hotel Bogotà di Berlino, in fondo ci sono molti luoghi «iconici» in città… E come si racconta una storia soggiornando per anni in diverse stanze?
Dal 2001 lavoro a una serie chiamata Sleeping Sister, collegata a un libro intitolato Schlafes Bruder (Fratello dormiente) dove tratto il tema della nostra contiguità con la morte e con la precarietà dell’esistenza.
Ho scattato quelle foto indipendentemente da dove fossi, finché non ho incontrato il proprietario dell’Hotel Bogotà, Joachim Rissmann. Conoscevo quel posto da quando era un hotel simbolo di Berlino ovest: molti attori e artisti hanno abitato le sue camere, nella sua hall si sono svolte serate danzanti, letture, performance, mostre. Conoscevo il suo passato anche grazie alla fotografia. Negli anni Venti, la ritrattista e reporter di moda Yva (vero nome Else Ernestine Neuländer-Simon) aveva scattato le sue prime immagini a colori sul tetto dell’edificio, lavorava lì. Helmut Newton fu un suo allievo, fece il suo apprendistato con lei, dal 1936 al 1938 (il suo studio in quell’anno fu chiuso, lei e suo marito furono arrestati dalla Gestapo mentre cercavano di partire per gli Stati Uniti; deportati, furono uccisi nel 1942, ndr).
In quel palazzo poi, in Schlüterstraße 45, ebbe sede anche la Camera della Cultura dei nazisti – guidata da Hans Hinkel, doveva promuovere l’arte ariana mettendo al bando quella delle avanguardie, «degenerata». Quando Joachim ha visto la mia serie Sleeping Sister, mi era permesso dormire in albergo. Mi ha offerto di andarci tutte le volte che avessi voluto. Così, sono rimasta lì fino alla sua chiusura, avvenuta purtroppo nel dicembre 2013.
Arianna Di Genova, Il Manifesto, 3.10.2020